Il capitolo 4 di Vite spezzate descrive la crudeltà del killer che a Londra sevizia le sue vittime prima di ammazzarle

Un supplizio indicibile
Dal capitolo 4 di Vite spezzate
Chi aveva ucciso il giovane italiano non doveva aver faticato molto perché si era premurato di stordirlo prima con un potente mix di alcol e sonniferi. Nel sangue era stata trovata un’alta concentrazione di flunitrazepam. Si trattava di un fortissimo ipnotico comunemente conosciuto come rape drug o “droga dello stupro” per la sua capacità di far perdere coscienza di sé a chi lo ingerisce, causando anche uno stato di amnesia che non permette di ricordare cosa è accaduto.
Il farmaco era stato probabilmente diluito nell’alcol che Petrelli Pinardi aveva bevuto in grandi quantità. La tesi degli investigatori era che la vittima fosse stata abbordata in un pub e fosse stata drogata dal suo aguzzino in un momento di distrazione.
Alle indagini spettava il compito di scoprire come trascorreva le sue giornate il giovane, qual era la cerchia delle sue amicizie, le sue abitudini, il locale frequentato di solito e in particolare quello in cui era stato la notte dell’omicidio.
Anche le sue inclinazioni sessuali erano importanti perché avrebbero permesso di capire se la mano che lo aveva colpito apparteneva a un uomo o a una donna. Secondo la Pence la forza impressa ai fendenti suggeriva che ad uccidere fosse stata una donna, anche se non era da escludere che si avesse a che fare con un individuo effeminato.
Dopo averlo drogato, il killer lo aveva portato nella sua tana dove aveva avuto tutto il tempo per soddisfare la ferocia che permeava la sua psiche. Lo aveva legato con delle stringhe di plastica come quelle usate dagli elettricisti, lo aveva imbavagliato e ne aveva atteso il risveglio prima di seviziarlo con un’arma tagliente che secondo i primi risultati poteva essere un coltello da cucina affilato su entrambi i lati.
L’assassino dapprima si era divertito a fargli dei piccoli tagli superficiali gustandosi l’espressione di puro terrore nei suoi occhi; poi gli aveva fatto sentire il freddo tagliente della lama causandogli ferite un po’ più profonde anche se non mortali che avevano messo a dura prova la resistenza della vittima, portandola verosimilmente allo svenimento.
In quel lasso di tempo si era con ogni probabilità premurato di medicarlo per non farlo sanguinare troppo, scongiurando il rischio di uno shock fatale che lo avrebbe privato anzitempo della soddisfazione di gustarsi una lenta e asfissiante agonia.
In base all’esame delle ferite non mortali, il ragazzo doveva aver sofferto almeno un paio di giorni prima che l’omicida lo finisse con tre coltellate letali che gli avevano spaccato il cuore e spezzato due costole. Aveva così dato finalmente sollievo a quell’anima in pena che prima di esalare l’ultimo respiro doveva averlo desiderato con tutta se stessa pur di porre fine a quel supplizio indicibile.
Qualcuno da qualche parte in città doveva aver visto qualcosa, doveva aver notato due persone di cui una ubriaca portata a spalla; doveva averle viste uscire da un pub, salire su un’auto o su un taxi, entrare in un’abitazione e poi dirigersi verso il Tower Bridge; doveva aver trovato degli indumenti insanguinati in qualche cassonetto.
Per questo motivo il detective Sonny D’Amato decise di servirsi di un amico giornalista per rivolgere un appello a eventuali testimoni.
Mark Barbato lavorava al London Evening Standard, un quotidiano distribuito il pomeriggio in ogni angolo della capitale britannica e in particolare alle fermate della metropolitana. Anche lui era un italiano di seconda generazione come Sonny, aveva la cittadinanza inglese essendo nato sulle rive del Tamigi e aveva da poco compiuto trent’anni…