Il capitolo 7 de Il dio danzante spinge gli investigatori a credere che abbiano trovato l’oro rapinato qualche anno prima
Dio e lu masciu
Dal capitolo 7 de Il dio danzante
Martella cercava di capire che significato potesse avere la canzone dei Pooh di cui gli aveva parlato Rosa Barba. Quel “dio delle città e delle immensità” che le aveva ripetuto più di una volta u masciu poteva essere un enigma da risolvere per arrivare al tesoro. In fondo non poteva che riferirsi a quello. Finché fosse rimasto l’unico a conoscere il nascondiglio dei lingotti d’oro, Rizzello avrebbe continuato a sentirsi un dio. Chi lo aveva fatto evadere non avrebbe potuto torcergli un capello senza prima avergli estorto quell’informazione.
«La sua tesi ha un fondo di verità, ma cosa le fa credere che chi l’ha fatto evadere lo voglia anche morto?» chiese il procuratore capo al maresciallo nel corso di una riunione indetta per fare il punto della situazione.
«Perché sei convinto che Rizzello sia morto? Di quale colpa si sarebbe macchiato per meritare la morte?» gli domandò il capo della squadra mobile Roberto Rossi seduto accanto all’ispettore Bassi.
«A voi cosa risulta?» chiese il pm De Bellis al primo dirigente.
«L’evaso, per quanto ne sappiamo, è ancora vivo» rispose Rossi con l’accento tipico marchigiano guardando Bassi quasi cercasse in lui la conferma alle proprie tesi.
«Cosa è emerso finora dalle intercettazioni?» proseguì il capo della Procura.
«Qualcosa abbiamo raccolto, ma al momento non siamo stati in grado di analizzare gli elementi in un contesto unitario. Attraverso i pedinamenti e le intercettazioni abbiamo appurato che Rosa Barba ha inviato alcuni suoi uomini di fiducia in avanscoperta, ma senza esito» proseguì Rossi.
«Chi hanno incontrato e dove?» chiese ancora il magistrato.
«Un uomo legato alla banda dei foggiani esperti negli assalti ai furgoni portavalori. Si sono visti in una masseria abbandonata tra le cave nella zona di Ugento dove una volta regnava Michele Scarcella, detto il Papa, il boss della vecchia Scu del basso Salento» spiegò Bassi con un inconfondibile accento romano.
Un passato che pareva ormai morto e sepolto tornava dai meandri più reconditi della storia per imporsi con tutto il suo carico di morte e terrore. Michele Scarcella era stato arrestato verso la fine degli anni Novanta, si era subito pentito e con le proprie dichiarazioni aveva fatto luce su molti episodi di criminalità che avevano insanguinato quel lembo di terra. Le sue parole avevano aperto le porte del carcere a numerosi affiliati all’organizzazione, tra cui parecchi uomini che erano stati ai suoi ordini quando comandava incontrastato il tacco d’Italia. In seguito al pentimento aveva reciso i legami con la famiglia anche per paura di eventuali ritorsioni. Dopo aver scontato la pena che gli era stata inflitta e aver beneficiato della protezione testimoni, ora viveva in una città del Nord.
Anche per Saru quel nome portava alla luce ricordi ormai sbiaditi. All’epoca aveva vent’anni e muoveva i primi passi nel mondo del giornalismo come collaboratore di un quotidiano locale. Aveva tanta voglia di fare, il lavoro non lo spaventava e la curiosità era tra le sue armi più affilate. Conosceva molto bene le dinamiche di quel territorio. Da bravo cronista aveva stretto ottimi rapporti con i carabinieri della zona, era conosciuto tra i capitani che coordinavano le compagnie di Casarano, Tricase e Gallipoli e aveva agganci anche con appartenenti ai gruppi criminali in situ. Sapeva quali erano i rapporti di forza, le alleanze, gli interessi, i ruoli. Spesso ne aveva discusso con alcuni investigatori dimostrando di masticare bene la materia. Una sera con un amico si ritrovò, senza saperlo, a casa di un luogotenente di Scarcella. La persona che li accompagnava lo presentò come un bravo cronista solleticando la fantasia dei presenti visto che a quel tempo da quelle parti non erano in tanti a svolgere quel lavoro. Il padrone di casa li invitò a bere qualcosa mentre la moglie chiese a Saru di sedersi al suo fianco perché voleva provare l’ebbrezza di stare accanto a un giornalista. Qualche anno prima era stato inviato nelle campagne di Ugento per seguire il primo omicidio della sua carriera. Un uomo era stato ammazzato a colpi di arma da fuoco e il corpo abbandonato tra gli ulivi. Gli era rimasto impresso quel volto paffuto incorniciato da folti capelli ricci e impreziosito da un paio di baffoni neri. Saru quella sera scoprì che quel pastore con piccoli precedenti, sposato e padre di cinque figli, era stato punito per uno sgarro legato allo spaccio. E siccome la vita non smette mai di riservarci sorprese, il passato tornò a bussare alla sua porta qualche tempo dopo, facendogli conoscere la famiglia di quell’uomo. Si ritrovò persino seduto in quello che era stato il salotto di casa del morto.
Durante il summit gli inquirenti si domandarono che senso avesse quell’incontro in una masseria di Ugento visto che la banda che aveva liberato Rizzello era foggiana e a quanto risultava loro non aveva collegamenti con i gruppi criminali del basso Salento. A dire il vero, se un paio d’anni prima aveva rapinato un blindato carico d’oro, era evidente che qualche collegamento fosse in essere con i malviventi della zona. Nessuno, infatti poteva sognarsi un’operazione di quel tipo fuori dal proprio territorio senza il lasciapassare dei capi locali. A meno che non fosse stato pagato un congruo indennizzo. Inoltre, il fatto di aver organizzato e messo in atto l’evasione dimostrava il salto di qualità del sodalizio che fino a quel momento si era occupato solo di assalti ai portavalori. La sensazione era che si fossero appoggiati a qualcuno molto più capace e in grado di mettere a segno quel tipo di operazioni che andavano al di là del semplice uso della forza. Per un’evasione, infatti, servivano basisti anche all’interno del carcere e l’abilità di operare in contesti più rischiosi rispetto a un’autostrada in aperta campagna.
I carabinieri setacciarono la masseria e grazie a tecniche investigative all’avanguardia riuscirono a stabilire che Rizzello era stato lì. Prima di abbandonare il luogo, i banditi si erano premurati di ripulirlo eliminando ogni più piccolo indizio. Qualcosa, tuttavia, era sfuggito. Quello che gli inquirenti non sapevano era se l’evaso fosse stato lì da uomo libero o come ostaggio degli aguzzini che tramite lui volevano arrivare all’oro. Nessuno, tra le tante persone che erano state sentite, aveva visto o udito qualcosa di sospetto. Solo un anziano contadino, titolare di un podere nella zona, parlò di un furgone di colore bianco, forse un Ducato, con uno strano adesivo colorato su una delle portiere posteriori. Le telecamere di sicurezza di cui il paese era disseminato permisero di raccogliere qualche elemento in più sul mezzo. In particolare, i malviventi furono traditi da un photored che immortalò la targa del furgone mentre passava con il semaforo rosso sulla strada che collega Ugento e Taurisano. Lo strano adesivo di cui parlava il testimone era lo stemma della Repubblica salentina, uno scudetto diviso in quattro parti con i colori giallo e rosso del Lecce calcio. Nei quattro spicchi trovavano posto il sole, la taranta, una torre di avvistamento e il dio danzante simbolo della Grotta dei Cervi di Porto Badisco.
All’udire la spiegazione di Bassi, nella mente di Martella si accese una lampadina a proposito di quel dio di cui cantavano i Pooh…