Giornalista e scrittore
 

Il capitolo 8 di Devi Morire

Il capitolo 8 di Devi Morire nel quale il passato riemerge nel presente per fare i conti con Saru Santacroce

Il capitolo 8 di Devi Morire e i conti di Saru con il passato

Dal capitolo 8 di Devi Morire

Il clan Barba era stato capace di rigenerarsi dopo le pesanti batoste subite per via giudiziaria. La sanguinaria Rosa Barba era in carcere da diversi anni, ormai, ma la sua opera era stata portata avanti sapientemente e spietatamente dalla figlia Lucia Barba. La ragazza aveva 30 anni, ma in quanto a crudeltà, scaltrezza e tasso criminale aveva abbondantemente superato qualsiasi prova. E con il rilancio della famiglia aveva dimostrato di avere doti malavitose davvero eccelse. La donna in realtà si chiamava Lucia Rizzello. Ma aveva fortemente voluto il cognome della madre ripudiando quel padre, ex killer della Scu, considerato un infame, vittima di una brutta morte e per mano amica come avevano dimostrato le indagini. In fin dei conti era stata sua madre la vera artefice della rinascita del clan. Ed era a lei che si ispirava Lucia Barba nel gestire gli affari della famiglia.
Non era una bella donna, Lucia, ma aveva un fascino che le permetteva di rimediare alle scarse attenzioni di madre natura. Era nata che sua madre non aveva neppure compiuto i sette mesi di gestazione. La gravidanza era stata sempre a rischio e quando nacque era il giorno di Santa Lucia. Pertanto, fu inevitabile darle quel nome dal momento che la sua nascita era stata una sorta di miracolo. Con il senno di poi, guardando agli sviluppi della situazione, c’era da giurare che qualcuno lassù avrebbe anche potuto risparmiarsi quell’evento eccezionale. Ma è pur vero che il bene ha bisogno del male per mettere in risalto tutto il suo valore. Così come le tenebre danno lustro alla luce e il brutto fa risaltare il bello. In fondo, se non ci fosse stato Giuda Iscariota avrebbero dovuto trovare qualcun altro pronto a tradire il Cristo dandogli l’opportunità di resuscitare seguendo il disegno del Padre. E magari non si sarebbe accontentato di trenta denari… Lucia Barba non era solo una spietata criminale. Era una donna che sapeva come farsi piacere. Ed era già tanto dal momento che non si potevano sperare miracoli.
Suo padre, infatti, era soprannominato U masciu proprio per la sua particolare contrapposizione con la grazia e la bellezza. Lucia Barba era di carnagione scura, proprio come la madre. E da lei aveva ereditato i capelli neri come il catrame e quel pizzico di bellezza che aveva posto rimedio alle brutture paterne. Aveva gli occhi chiari e in questo le era stato di aiuto il nonno del padre. Non era molto alta, ma il fisico in quello la aiutava con la sua simmetricità che pareva aver perso un po’ le proporzioni con il seno che spiccava fortemente con quella sua quarta C. Era un’amante del lusso ed era una delle poche cose che adorava sfoggiare al contrario delle altre sue doti che amministrava con sapiente e convincente discrezione. Probabilmente i suoi abiti, rigorosamente firmati e sempre all’ultima moda, erano la nota stonata in quella ricerca di gusto che proprio nell’ossessiva ostentazione aveva il suo punto debole.
Ad ascoltare certe voci che circolavano sul suo conto, pare che la madre non avrebbe voluto per lei quella vita da criminale. Ma, come disse una volta un tizio, ognuno incontra il suo destino proprio lungo la strada che ha imboccato per evitarlo. Esattamente come racconta la mitologia greca a proposito del giovane principe di Tebe, Edipo. Lucia Barba aveva una spina nel fianco. Ed era disposta a tutto pur di eliminare quella fastidiosa sensazione. Saru Santacroce doveva essere a tutti i costi levato di mezzo. Per sua sfortuna, però, il cronista pareva davvero essere finito sotto un’ala protettrice sovrumana.
Infatti, era già sfuggito alla prematura dipartita ai tempi di Rosa Barba. Lo spietato commando di morte incaricato di eliminarlo aveva fallito la sua missione. Ma non per incapacità, dal momento che il bersaglio era stato colpito mortalmente. Il coraggio che il cronista aveva dimostrato nel tenerle testa nel corso di un’intervista non era piaciuto alla boss, evidentemente abituata a essere circondata da cagnolini scodinzolanti. L’affronto era stato giudicato inammissibile e da lavare con il sangue. Il piano, però, era fallito e da ciò era scaturita la rovinosa caduta di Rosa Barba. Arrestata, era finita all’ergastolo grazie anche al cronista che, nonostante le minacce ricevute, aveva dato prova di sangue freddo nel testimoniare contro la sua carnefice e nel creare una campagna di stampa che aveva destato molto interesse nell’opinione pubblica.
In tal modo si erano accesi i riflettori sulla pericolosità della compenetrazione criminale nel tessuto socio-economico. La realtà certe volte aveva dimostrato che era lo stesso Stato a far crescere la malapianta con la sua incapacità di fornire giustizia e sicurezza al di là dei vuoti proclami e dei suoi atteggiamenti spesso persecutori. Ma probabilmente, tarando costi e benefici, il prezzo da pagare alle organizzazioni criminali per il loro presunto intervento risolutore era decisamente molto più elevato. Il 41 bis aveva costretto la Barba a una sorta di seppellimento da viva minandone dapprima il corpo e poi lo spirito che con il passare del tempo pareva aver perso il vigore della sanguinaria.
Il suo avvocato l’aveva descritta come una nonnina indifesa, innocua e timorosa alle prese con un invecchiamento precoce. Costretta a fare i conti con le numerose problematiche di salute che il carcere e l’isolamento stavano pericolosamente acutizzando. E, se una mano pietosa non avesse posto fine a quella inumana sofferenza, la donna ne sarebbe morta trasformandosi in una martire del bestiale e crudele sistema giudiziario. «Chissà perché diventano tutti mansueti, malati e bisognosi di cure quando finiscono in carcere» sbottò Saru Santacroce, commentando le parole che il difensore aveva pronunciato, nel corso di un’intervista su un quotidiano locale. Il cronista non era mai andato per il sottile in quelle questioni. Figurarsi se avesse cominciato in quella circostanza. In effetti, con la stessa delicatezza di un caterpillar ebbe modo di dire la propria sul caso della Barba che in quei giorni stava catalizzando il dibattito in città e in tutto il Salento.
In un paio di interviste, che non erano sfuggite al clan e neppure agli inquirenti, aveva manifestato candidamente il suo pensiero senza timore di eventuali conseguenze. Per lui Rosa Barba doveva rimanere in carcere e uscirne solo in posizione supina in quattro assi di legno. Era il minimo che si potesse sperare dopo tutto il male che aveva fatto. «Chi semina vento deve per forza raccogliere tempesta» continuava a ripetere il cronista a chiunque gli chiedesse un parere sulla boss. Nessuno avrebbe avuto il coraggio di mancare di rispetto in quel modo alla malavita la cui opprimente presenza cominciava nuovamente a rendere l’aria irrespirabile come una cappa. E le sue parole risultarono deleterie come il sale sulle ferite per la figlia Lucia.
Con le sue rasoiate, Saru diventava perfino sprezzante quando affermava che il sistema giudiziario era iniquo sol perché si dava più pena per i carnefici che per il dolore delle vittime. A suo modo di vedere, per come era stato pensato, la parte offesa in un reato era addirittura quattro volte vittima. Perché oltre a subire il torto, doveva pagarsi l’avvocato, lo doveva pagare al suo aguzzino (che nella maggior parte dei casi era ufficialmente nullatenente e nullafacente e quindi gli veniva riconosciuto il gratuito patrocinio) e finiva nel tunnel dell’ingiustizia passando spesso per la cattiva della situazione. Infatti, anche se non ci dava alcun peso, certe volte aveva come l’impressione che agli occhi di una parte dell’opinione pubblica fosse lui a perseguitare la Barba con le sue posizioni intransigenti. E a criticarlo erano proprio coloro sempre pronti a indossare il vestito del finto buonismo, ma con le disgrazie altrui. Per poi essere anche pizzicati a fare accordi con i criminali che a parole condannavano, magari in cambio di qualche voto.
Ma Saru faceva come Dante, guardava e passava oltre continuando per la sua strada. E ripeteva sempre che se si commette un delitto contro la società si ha un debito da pagare, non un credito da esigere. Ovviamente c’erano casi limite, ma non tali da giustificare il finto buonismo imperante che lo bollava come fascista e populista. Eppure, in quel caso, non c’era nulla che la società civile dovesse farsi perdonare di fronte alla presunta situazione critica di Rosa Barba che tanti lutti e tanto dolore aveva causato con la sua condotta criminale. E tanto male ancora stava provocando dal momento che aveva educato in tal senso la figlia che ben seguiva le orme di chi l’aveva preceduta. A dire il vero, fino a quel momento Lucia Barba risultava una persona incensurata. Tutti sapevano quale fosse il suo ruolo e come esercitasse la sua autorità, ma nessuna sentenza era stata emessa sul suo conto. Probabilmente sarebbe stata questione di tempo, ma in quel frangente la sua fedina penale era assolutamente intonsa. Di sicuro, tra il clan e Saru Santacroce il conto era più che aperto. E non era un caso che Lucia Barba fosse convinta che la causa di tutto ciò che andava storto fosse proprio Saru Santacroce. Le varie interviste che aveva rilasciato sull’argomento ne erano l’ulteriore dimostrazione e per tale ragione, ai loro occhi, era stato lui stesso a decretare la propria condanna a morte. Fosse pure l’ultima cosa che sarebbe riuscita a fare. Quel bastardo sarebbe stato ammazzato.
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